I giornalisti sono una brutta razza. Il fatto che siano esseri umani, d’altronde, non depone a loro favore.

Varie ed eventuali le tipologie sulla piazza. La prima distinzione, che poi ne genera a cascata molte altre, è quella tra chi “è” giornalista e chi “fa” il giornalista. Ma non basta. Perché anche chi il giornalista lo fa e basta in alcuni casi può inglobare l’attitudine del modello impiegatizio (quindi entro in redazione, smisto le agenzie, le butto dentro-vediamo-se-mi-va-cambio-l’attacco-sennò-niente) insieme alla tipica spocchia di chi si sente giornalista anche mentre si mette la crema viso la mattina. Avvertenze per l’uso: trattasi della peggior specie, perché in questo caso l’arroganza non è nemmeno suffragata da un impegno costante e forsennato applicato alla professione, ma solo da uno status, un titolo, o quell’accidenti che è che consente (non consentirebbe, ma lo fanno, eh, lo fanno) di ergersi nella parte del giusto, sempre e comunque.

Ovviamente poi ci sono anche quelli che giornalisti sono fino al midollo, ci si sentono, te lo fanno sentire, e scusa se “io so’ io e voi nun siete etc”.

Avvertenze: lasciate perdere, non c’è scampo, o prendere o lasciare a seconda delle inclinazioni di tolleranza di ognuno. Ma almeno in questo caso qualcosa da imparare c’è.

Il giornalismo, a dispetto del sentire comune, è fatto dalla scrittura (inteso come bella scrittura) solo in minima parte. Il resto sono intuito, caparbietà, volontà – un centinaio di altre cose – e soprattutto pubbliche relazioni. C’è chi delle pubbliche relazioni se ne sbatte: il/la giornalista sono io, e voi (vedi sopra). C’è chi se ne batte troppo, e via di sviolinate e ghirigori, e “vada prima lei, oh no ci mancherebbe, prima lei”. C’è chi media, e viva Dio.

Per non parlare del rapporto con i colleghi: c’è chi è della scuola “siamo tutti una squadra, volemose bene, te do ‘na mano” (specie all’interno del singolo gruppo-giornale) e chi “morite ammazzati tutti all’infuori di me”. Pare che da qualche parte esista un libretto di etica del comportamento, ma che nessuno l’abbia mai trovato.

Le testate, dopo tutto, sono posti di lavoro: quindi “mors tua vita mea”, “ti pesto i piedi quando voglio”, “io non te li ho mai pestati ma tu non capisci una blasonata ceppa e quindi credi che il mondo complotti alle tue spalle”, “ti sto aiutando ma non te ne accorgi”, “fidarsi non è una malattia rara, sta tranquillo/a”, “e quello è stato co’ quella e poi nulla”, “e quella è stata co’ quell’altro e poi co’ quell’altra”, “ti metterei il cianuro nella macchinetta del caffè se solo potessi”, “io ho due giorni e tu due e tre ore”, “mi pesa il culo ma so’ comunque più bravo/a io”, “io sono la squadra”, “facciamo la gara a chi piace di più al direttore”, “voglio sapere tutto della tua vita privata così poi faccio le battute”, “eh ma tu esci prima”, “eh ma tu l’altra volta avevi detto che” e via così, in una lunga ed estenuante lista di amenità.

Ci sono i grandi che non hanno bisogno di ostentare di esserlo, quelli che firmano gli editoriali, fanno settecento cose, ma trovano sempre il tempo di rispondere ad una mail, fosse anche con una riga, e quelli che le mail le lasciano inevase sempre e comunque, per mesi. Quelli che non rispondono, ma poi quanto meno si scusano, quelli che non capiscono mai, ma mai, che non è il momento, quelli che il momento non sanno nemmeno cos’è.

Quelli che non si prendono sul serio proprio perché sono seri, quelli che amano fare le domande di mezz’ora, quelli che detestano fare domande in pubblico, perché amano il margine. Quelli che conoscono tizio e caio e te lo sbattono in faccia sperando di portarti a cena, e quelli che co’ tizio e caio ci vanno pure in vacanza, ma preferiscono fare meno gli splendidi. Quelli che sono più vip dei vip, quelli che i vip li schifano.

Quelli che hanno trovato la giusta distanza, e quelli che la distanza la mettono, credendo di renderla giusta.

Quelli che hanno inventato tutto loro, e dicendolo dimostrano di continuare a farlo. Quelli che credono che il modo giusto per andare avanti non sia fare bene il proprio lavoro, ma screditare quello degli altri. Quelli che scrivono perché altrimenti non saprebbero che cazzo fare, e quelli che non sanno far altro che scrivere.

Quelli a cui viene un’intuizione mentre girano il caffè, quelli che interrompono l’interlocutore amico dicendo “ma sai che questa potrebbe essere un’ottima idea per…”. Quelli che non ti fanno questa domanda e ti sbattono sul giornale. Quelli a cui questa domanda non viene.

Quelli che dicono “poso la penna” e lo fanno, quelli che lo dicono e non lo fanno. Quelli che non lo dicono, ma intanto gli è finito l’inchiostro nella penna. Quelli che stroncano un cd, e quelli che stroncano qualcos’altro. Quelli che nascono critici di qualsiasi cosa, quelli che sono critici e basta.

Quelli che spostano lo sguardo, quelli che ti danno fiducia e ti firmano un contratto. Quelli che ti mandano per strada anche quando tu credi di non saperlo fare, quelli che la strada la usano solo per arrivare nei posti (e forse nemmeno), quelli che la strada l’hanno persa.

Quelli che credono nelle storie, e quelli che ne raccontano tante. Quelli non disposti a vendere una persona per un titolo, e quelli che avendo i titoli, lo fanno.

Quelli a cui tutti portano rispetto, che dovrebbero essere quelli che portano rispetto a tutti, ma spesso no.

Quelli che parlano solo quando sanno, quelli che sanno anche quando non parlano, e quelli che straparlano, ché fa figo. Quelli che hanno un’opinione e quelli che fanno opinione. Quelli stronzi, ma capaci, quelli stronzi e basta.

Quelli per cui esiste solo il loro modo per fare questo mestiere. Quelli per cui il mestiere è un modo di fare le cose. Quelli che credono che tutte le cose siano questo mestiere.

Quelli disposti a farsi sparare sulla macchina per aver detto la verità, e quelli con le verità in mano. Quelli che hanno voglia di imparare, e quelli nati imparati.

Quelli che sanno usare la macchina da scrivere, quelli che si son fatti bocciare all’esame per non averla saputa usare. Quelli che del lettore chi se ne frega, e quelli che il lettore sopra chiunque. Quelli che si confrontano e quelli che no, perché in confronto a loro hanno deciso che non vali nulla.

Quelli che “grazie”, e quelli che “graziearc…”. Quelli che chiedono se disturbano e quelli che disturbando sempre, non lo chiedono.

Quelli che si presentano con il nome della testata senza dire il proprio, e quelli che si sbattono per farne conoscere una nuova. Quelli che una novità non sempre è una notizia. Quelli che osservano e quelli che si lasciano osservare.

Tutto sommato, siamo un’umanità varia. Forse questo depone a nostro favore.